Lea Melandri: “L’amore è stato un velo” per la violenza domestica
Lea Melandri (1941) è una saggista, scrittrice e giornalista. È una figura affermata del femminismo italiano. Il suo ultimo libro è Amore e violenza: The Vexatious Factors of Civilization (Albany: State University of New York Press, 2019). Altri suoi scritti sono disponibili su Lea’s Archive.
Lea Melandri: Di tutte le forme di dominio che si sono succedute nella storia, quella maschile è del tutto particolare in quanto coinvolge le cose più intime, come la sessualità, la maternità, i rapporti familiari.
Gli uomini sono figli di donne: incontrano il corpo di un’altra persona, quella che li ha generati, nel momento della loro massima dipendenza e impotenza. Quel corpo li tiene in balia per i primi anni della loro vita, attraverso la cura o l’abbandono. È lo stesso tipo di corpo che incontreranno nella loro vita sentimentale adulta, ma in una posizione di potere invertita.
Confinando le donne nel ruolo di madre, gli uomini si sono anche costretti a indossare una maschera di virilità sempre minacciata, a stabilire vincoli ritenuti indispensabili, anche quando non lo sono. Il sogno dell’amore – come appartenenza intima a un altro essere, come unità nella coppia, estensione del legame originario tra madre e figlio – porta in sé il rischio di una separazione violenta, legata al bisogno di autonomia di ciascuno.
I ruoli di genere, nella loro complementarietà e collocazione gerarchica, danno forma alle relazioni di potere. Allo stesso tempo, spingono verso un ideale, verso una riunione armoniosa di parti inseparabili dell’essere umano: corpo e mente, sentimenti e ragione. È questo confondersi di amore e violenza che, ancora oggi, ostacola la consapevolezza del sessismo.
Tu scrivi: “Invece di limitarsi a deplorare la violenza, chiedendo punizioni più severe per gli aggressori, più protezione per le vittime, forse sarebbe più sensato gettare uno sguardo dove non ci piace vedere apparire quella violenza”. Quali sono queste “zone”, questi luoghi della politica e dell’anima?
Potremmo iniziare da quella che è stata la grande “sfida”, o rivoluzione, del femminismo degli anni Settanta: la scoperta che per millenni le esperienze più universali dell’uomo – sessualità, maternità, nascita, morte, legami familiari – erano state considerate “non politiche” e confinate nel “privato” e nell’ordine della “natura”. Come tali, erano destinati a rimanere “permanenze”.
Quelli che siamo ancora propensi a considerare “luoghi dell’anima” sono sempre appartenuti alla storia, alla cultura e alla politica. Lo slogan “il personale è politico” intendeva riconoscere che nelle vite individuali, nelle esperienze personali, così come nella memoria del corpo, ci sono tesori di cultura ancora da scoprire, c’è una storia non scritta, che non si troverà in nessun libro di testo o in nessun sapere o linguaggio esistente.
È in queste “zone” al di fuori della sfera pubblica e del discorso, ammantate di pudore e ignoranza o di “indicibilità”, che la generazione di quell’epoca cercò le radici della separazione tra politica e sessualità, tra i diversi destini di uomini e donne, così come l’origine di tutti i dualismi: biologia e storia, individuo e società.
“Un mostro è un’eccezione, una persona per la quale la società non deve assumersi la responsabilità. Ma i mostri non sono malati, sono i figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. Il femminicidio non è un crimine passionale, è un crimine di potere”, Elena Cecchettin
.La prima forma di violenza di cui abbiamo preso coscienza in quegli anni non poteva che essere quella che ho chiamato “violenza invisibile” o “violenza simbolica”: una rappresentazione maschile del mondo che le donne stesse hanno forzatamente fatto propria, o “incorporato”. Non è un caso che la vittima parli la stessa lingua dell’aggressore. Cos’altro potrebbero fare le donne se non incastrarsi in quei ruoli – “madri di”, “mogli di” – cercando di strappare un po’ di potere e di piacere?
Siamo stati una generazione che si è ribellata alle madri. Erano viste come un canale per la legge dei padri, e uno dei nodi in cui ci siamo trovati a scavare più duramente è stato, non a caso, il rapporto madre/figlia. Abbiamo scoperto che l’espropriazione più violenta che le donne hanno subito è stata quella di essere cancellate come “persone”, per essere invece identificate con il corpo – il corpo erotico o il corpo materno – e ridotte a “funzioni”.
A quel punto, avremmo dovuto spalancare le porte della casa e mettere in discussione l’accoppiamento e i legami familiari in tutta la loro ambiguità. Avremmo dovuto portare alla luce del sole la violenza nelle sue forme “manifeste”: maltrattamenti, sfruttamento,
femicidio. Se abbiamo affrontato il tema della violenza domestica solo molto più tardi, all’inizio degli anni Duemila, è perché l’amore ha fatto da velo, anche per chi, come nel mio caso, ha assistito per molti anni alla violenza sulle donne della propria famiglia. Oggi, di fronte a una serie inarrestabile di femminicidi, è facile gridare contro il “mostro”, chiedere pene più severe. È più difficile chiedersi se non sia l’amore – così come lo abbiamo ereditato, mescolato al potere – a dover essere messo in discussione. Non è un caso che l’amore sia rimasto un tabù anche per il femminismo.
Il femminismo è per certi versi la tragedia finale, ma prima di esso (e anche senza di esso) ci sono state forme di violenza e controllo che si sono affermate in vite amorose “normali” e “felici”. Come possiamo spiegare che gli uomini che uccidono le donne che amano sono “figli sani del patriarcato“?
Dopo mezzo secolo di teoria e pratica femminista, solo oggi si comincia a parlare di patriarcato come “fenomeno strutturale”. È stato un grande passo avanti parlare di femminicidi non solo come crimini, come patologie dell’individuo o come risultato di culture arretrate. Ma resta ancora molto da fare per riconoscere che la violenza “manifesta” è solo l’aspetto più selvaggio e arcaico di una cultura diffusa che è diventata la norma.
Ho sempre preferito il termine “dominio maschile”, o “sessismo”, piuttosto che “patriarcato”, forse perché ho esitato ad affrontare l’ambiguità di un tipo di potere che confondeva il volto di un tenero figlio con quello di un padre padrone. Se gli uomini fossero solo il sesso vincente e sicuro di sé, non avrebbero bisogno di uccidere; se le donne vedessero solo un assassino nell’uomo che minaccia la loro vita, non esiterebbero così spesso a denunciare la violenza che subiscono. Oggi gli uomini uccidono perché di fronte alla libertà delle donne – al fatto che non sono più un corpo a loro disposizione, finora considerato un “naturale” privilegio maschile – gli uomini scoprono la loro fragilità e dipendenza. Nella vita pubblica, insieme agli altri uomini, sono liberi. Ma all’interno della casa sembrano non aver mai perso quel cordone ombelicale, e sono rimasti essenzialmente figli, anche di mogli o amanti molto più giovani di loro.
Possiamo ora dire che il “patriarcato” è una visione del mondo che ha plasmato l’apprendimento e il senso comune, e che nella storia porta l’impronta di una comunità di soli uomini, ma che le donne stesse hanno interiorizzato. Se è diventato la “normalità”, è perché è rimasto a lungo nella sfera “privata” e nel quadro di leggi naturali immutabili.
Lei cita il libro di Bourdieu Dominazione maschile, pubblicato nel 1988. Parla dell’amore come “la forma suprema, perché è la più sottile, la più invisibile forma di violenza simbolica”.
Prima di leggere Il dominio maschile di Pierre Bourdieu – un libro che ho amato e recensito nonostante non abbia avuto la diffusione che meritava in Italia – il tema dell’amore aveva già attraversato il mio percorso personale e politico. Alla fine degli anni Settanta, quando l’attenzione era rivolta in gran parte alla sessualità e all’omosessualità, e alle questioni legate all’inconscio, mi resi conto di quanto fosse importante per me il bisogno d’amore – e anzi di quanto fosse fortemente legato al “sogno d’amore”, quello della fusionalità, dell’intima appartenenza a un altro essere.
All’inizio degli anni Ottanta ho iniziato un lungo periodo di studio. Scoprii il Diario di una donna, e avevo una rubrica di “zia d’agonia” su una rivista per adolescenti chiamata “Ragazza In”. Erano gli anni in cui ho scritto quello che considero il mio libro più personale: “Come nasce il sogno d’amore“ (“Come nasce il sogno d’amore”). In realtà avrei dovuto intitolarlo “Come finisce l’illusione d’amore” – quel sogno di “unità in due” come lo definirebbe Aleramo, quell'”atto sacrilego dal punto di vista dell’individualità” – dopo essere stato inseguito attraverso un numero incalcolabile di “amori” ed “errori”.
“Oggi, di fronte a una serie inarrestabile di femminicidi, è facile gridare contro il “mostro”, chiedere pene più severe. È più difficile chiedersi se non sia l’amore – così come lo abbiamo ereditato, mescolato al potere – a dover essere messo in discussione”
Da allora ho scritto spesso del sogno d’amore come “violenza invisibile”, e mi sono chiesta se questa fosse la forza o la debolezza delle donne, se la loro “schiavitù” più profonda non andasse cercata proprio nel potere di rendersi indispensabili all’altro, nel rendere la vita “buona” per l’altro.
Il merito del libro di Bourdieu è quello di aver analizzato in profondità le costruzioni di genere – il maschile e il femminile – in quelle “permanenze” che si trovano nei più diversi contesti storici e politici, di aver riconosciuto come il dominio maschile sia stato una colonizzazione delle menti, oltre che dei corpi, e, in particolare, di aver interrogato l’ambiguità del sogno d’amore. Nell’ultimo capitolo del libro, Bourdieu si chiede se l’amore, in quanto fusione, dissoluzione nell’altro, sia una “tregua” – un'”oasi” nella guerra tra i sessi – o la forma suprema di quella guerra, la forma più invisibile e insidiosa di “violenza simbolica”. Era la stessa conclusione a cui ero giunta nel mio percorso femminista. Che un uomo lo riconoscesse non poteva che farmi piacere.
Possiamo parlare di amore in modo diverso?
Penso che le alternative comincino a emergere solo quando si è analizzato il male in profondità, e in termini di nodo perverso tra amore e violenza. Credo che ci sia ancora molta strada da fare. Di particolare interesse da questo punto di vista è il libro di Bell Hooks, Tutto sull’amore, e anche i saggi di Francois Jullien, Sull’intimità, Lontano dal Din dell’amore, Accanto a lei, Presenza opaca, Presenza intima.
Cosa è cambiato negli ultimi anni, dopo #MeToo e sulla scia degli eventi attuali? Quando ci siamo sentite al telefono, il dibattito sul l’omicidio di Giulia Cecchettin era fresco, e lei mi ha detto: “Sento sui giornali il discorso che noi, le femministe, facciamo da anni”. Che cosa è successo?
Un grande cambiamento è arrivato, ancor più che da #MeToo – che è diventato quasi solo un processo mediatico alle celebrità – dalle ondate di femminismo più recenti, a partire dai primi anni 2000. Nel 2007 in Italia c’è stata la prima grande manifestazione, promossa dal gruppo “Sommosse”, in cui abbiamo visto striscioni sulla violenza domestica e lo slogan “L’assassino ha le chiavi di casa”. Avevano finalmente gettato lo sguardo nella casa di famiglia, nelle relazioni familiari. La violenza che era sempre stata presente, ma nascosta dall’ambigua questione della privacy, ora appariva allo scoperto. Nel portare il sessismo nel discorso politico, i rapporti nazionali e internazionali sulle cause della morte delle donne contarono molto. Così come la sequenza ininterrotta di femminicidi, purtroppo. Altra cosa importante è stata la nascita della rete “Ni Una Menos” nel 2017, che ha avuto origine in Argentina. Da allora, ogni anno si tengono grandi manifestazioni l’8 marzo e il 25 novembre. A queste non è mai stato dato il risalto che meritavano. In questa ultima “marea” femminista, ciò che mi è parso nuovo è l’allargamento del discorso a tutte le forme di dominio: sessismo, classismo, razzismo, colonialismo, ecc. Sono tornate le richieste radicali del femminismo degli anni Settanta, per “cambiare il sé e il mondo”. La sfida è stata quella di partire dal luogo più lontano dalla politica – il sé, l’esperienza personale – per investire e “sconvolgere” l’apprendimento e il potere della vita pubblica. Pur riconoscendo l’eredità essenziale di mezzo secolo di femminismo, il salto “imprevisto” nella coscienza storica è avvenuto in Italia con il femminicidio di Giulia Cecchettin, la studentessa uccisa dall’ex fidanzato l’11 novembre 2023. Sono state le parole di Elena, sorella della vittima, e di suo padre Gino Cecchettin, ad aprire una breccia inaspettata nella cultura e nei media italiani, entrambi ancora fondamentalmente maschilisti. Piuttosto che essere rinchiusa nell’intimità di una famiglia danneggiata, questa storia di un ennesimo femminicidio ha visto per la prima volta le porte di casa aprirsi per far uscire idee finora sentite solo nelle manifestazioni femministe. Solo un “padre” capace di guardare oltre il suo ruolo genitoriale e di pensarsi “uomo” tra gli uomini, con una mascolinità che oggi include la necessità di interrogarsi sulle sue espressioni più violente, potrebbe eclissare la figura del patriarca, a cui alcuni guardano ancora con malcelato rimpianto. È toccato alle figure del padre e della figlia rompere l’armatura dei ruoli familiari, mettere in discussione la “normalità” di pregiudizi atavici che hanno “privatizzato” e “naturalizzato” i rapporti di potere storici. Le parole della sorella di Giulia sono state di per sé un punto di svolta da cui non si può più tornare indietro: sono stati gli slogan e le verità gridate da generazioni di femministe uscite per la prima volta da ambiti ristretti e ignorati, per essere ascoltate e riprese nei più diversi ambiti della vita pubblica. “Un mostro”, ha detto Elena, “è un’eccezione, una persona per la quale la società non deve assumersi la responsabilità. Ma i mostri non sono malati, sono i figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro. Il femminicidio non è un crimine passionale, è un crimine di potere. Abbiamo bisogno di un’educazione sessuale ed emotiva diffusa, dobbiamo insegnare che l’amore non è possesso”