Prima dello scoppio della guerra civile siriana, Refaat Hazima faceva il barbiere a Damasco. Anche suo padre, suo nonno e il suo bisnonno erano stati barbieri. Grazie alla sua maestria, al suo talento e alla reputazione costruita nel corso di quattro generazioni, Refaat era un uomo ricco. Insieme alla moglie, medico del servizio nazionale, poteva permettersi di far studiare i suoi tre figli invece di mandarli a lavorare in giovane età.
“Erano sempre i primi della classe”, ricorda con voce nostalgica mentre siede da solo in un ristorante sul mare di Lampedusa, una piccola isola siciliana a metà strada tra Malta e la costa orientale della Tunisia. Le coste rocciose lungo le quali ora gusta lentamente le melanzane servite con il tonno fresco sono state teatro dell’episodio più traumatico della sua vita.
“Il presidente Bashar al-Assad aveva accentrato tutto il potere nelle sue mani, e la nostra vita quotidiana in Siria era diventata complicata” Refaat è stato anche temporaneamente imprigionato per motivi politici. Ma il punto di non ritorno per lui e sua moglie è stato lo scoppio della guerra civile nel 2011. È diventato chiaro che non solo il futuro educativo dei loro figli era in pericolo, ma persino la sopravvivenza dell’intera famiglia.
Così decisero di partire.
La coppia pagò ai contrabbandieri più di cinquantamila dollari per tentare di raggiungere la Germania, dove i figli avrebbero potuto continuare la loro istruzione. Ma tra respingimenti, ostacoli ed esitazioni che hanno costretto la famiglia a tappe di mesi in diversi Paesi, Refaat e la sua famiglia hanno dovuto aspettare fino al 2013 per poter finalmente salpare verso le coste europee di Lampedusa.
Nonostante fosse autunno, quella notte il mare era calmo. Le preoccupazioni iniziali legate alle condizioni del mare e alla barca di legno troppo carica di esseri umani si dissolsero. Nell’oscurità del mare notturno, si intravedevano le coste e le luci tremolanti dei lampioni e dei ristoranti. Ma all’improvviso la barca su cui viaggiavano si rovesciò.
La coppia è stata salvata dalle autorità italiane e portata sulla terraferma insieme a uno dei figli. Gli altri due, invece, sono scomparsi. “Uno di loro mi ha detto Papà, dammi un bacio sulla fronte, e poi non l’ho più visto”.
Dal 2013 a oggi, Refaat ha cercato ovunque i loro figli. Per 10 anni ha viaggiato, chiesto e cercato. È persino apparso in TV con la speranza di poterli riunire un giorno. Ma ancora oggi non sa se i suoi figli si sono salvati o se sono due delle 268 vittime del naufragio dell’11 ottobre 2013, uno dei peggiori disastri del Mediterraneo degli ultimi tre decenni.
Numeri incerti e parziali
Per oltre due decenni, l’Italia è stata una delle principali porte d’ingresso per i migranti che volevano raggiungere l’Unione europea. Dal 2000 sono morte tra le trenta e le quarantamila persone nel tentativo di raggiungere l’Italia. Ma nonostante questa posizione strategica, le autorità non hanno mai creato un registro completo per censire i morti riportati dal mare, e quindi le fonti sono confuse e approssimative.
In ogni caso, la cifra dei corpi ritrovati è solo una percentuale delle persone che hanno perso la vita nel tentativo di attraversare l’Europa. Infatti, raramente i corpi di coloro che muoiono in mare vengono recuperati. Quando ciò accade, ancora più raramente vengono identificati dalle autorità italiane.
Uno studio condotto dal Comitato internazionale della Croce Rossa ha cercato di mappare le tombe anonime dei migranti in vari Paesi europei e di contare il numero di morti recuperate in mare. Secondo il rapporto, tra il 2014 e il 2019 sono stati ritrovati in Italia 964 corpi di persone – presunti migranti – di cui solo il 27% è stato identificato. Nella maggior parte dei casi analizzati, l’identificazione è avvenuta attraverso l’immediato riconoscimento visivo da parte dei compagni di viaggio, mentre chi viaggiava senza amici o parenti è rimasto quasi sempre anonimo.
Un test del DNA per tutti
“La stragrande maggioranza dei corpi finisce in fondo al mare e non viene mai recuperata, diventando cibo per pesci”, spiega Tareke Bhrane, fondatore del Comitato 3 Ottobre, una ONG nata per tutelare i diritti di chi muore cercando di raggiungere l’Europa. “Il Comitato è nato all’indomani dei due disastrosi naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013 per far capire all’Italia che anche chi muore ha una dignità e che rispettarla è importante non solo per chi muore, ma anche per chi sopravvive”, racconta Bhrane.
Il 3 ottobre 2023, il Comitato ha organizzato un grande evento sull’isola di Lampedusa per commemorare il 10° anniversario del naufragio. Decine di famiglie di persone morte o scomparse si sono riunite sull’isola, provenienti da molti Paesi europei e del Medio Oriente.
Sull’isola erano presenti anche genetisti forensi del Labanof, un importante laboratorio di medicina legale dell’Università di Milano che da decenni collabora con procure e forze dell’ordine per risolvere casi e identificare corpi senza nome. I parenti delle persone scomparse hanno così potuto sottoporsi gratuitamente al test del DNA per saperne di più sui loro cari.
Una delle principali attività del comitato negli ultimi anni è stata quella di fare pressione sui comuni siciliani per una migliore gestione delle tombe anonime. Anche grazie alla ONG, oggi quasi tutte le province siciliane ospitano nei loro cimiteri alcune vittime dell’emigrazione, spesso anonime.
“Tra i punti essenziali della nostra missione”, spiega Bhrane, “c’è la creazione di una banca dati europea del DNA per il riconoscimento delle vittime, in modo che chiunque voglia possa sottoporsi a un test del DNA in qualsiasi parte d’Europa e scoprire se una persona cara ha perso la vita nel tentativo di arrivare qui”